Psicologia della percezione

Parte I - Posizione del problema ed aspetti teorici

di Zazzy (31 Mar. 2003)

Per il corso di Psicologia della Percezione (Prof. Da Pos, A.A. 2003-04) ho dovuto scrivere alcune relazioni sugli argomenti trattati a lezione. Ho deciso di presentare qui una piccola selezione di questi testi, opportunamente riveduti e corretti, che ritengo possano essere di interesse generale.

Il tutto sarà presentato diviso in più parti.

Posizione del problema

La psicologia della percezione si sforza di rispondere alla domanda: “Perché vediamo quello che vediamo?” o, più in generale: “Perché il mondo ci appare in questo modo?”. A prima vista questa potrebbe sembrare una domanda senza senso: per la maggior parte delle persone il mondo “ci appare come è nella realtà ”, ovvero i sensi non fanno altro che fornire una copia fedele della realtà oggettiva che sta “lì fuori” e che ci limitiamo a registrare passivamente; è questa la visione che si potrebbe chiamare realismo ingenuo.

Le cose non stanno così: ce ne possiamo rendere conto quando viene a prodursi una discrepanza fra quello che sappiamo essere la realtà fisica e quella che è la realtà percepita (fenomenica), infatti possono esserci casi in cui:

  • Vediamo quello che non c'è: un tipico esempio è il triangolo di Kanizsa (e gli innumerevoli altri esempi di percezione amodale) in cui un oggetto esiste fenomenicamente, ma non fisicamente.
  • Non vediamo quello che c'è: il triangolo di Galli-Zama “sparisce” aggiungendo delle linee orizzontali, pur continuando ad esistere fisicamente (tipico esempio di mascheramento).
  • Vediamo quello che non può esistere, ossia possiamo percepire oggetti che nella realtà fisica sarebbero fisicamente irrealizzabili (es. le figure impossibili di Penrose).
  • Vediamo più cose in luogo di una sola: in tutti i casi di figure ambigue (es. il vaso di Rubin, il cubo di Necker) a fronte di un unico stimolo fisico, che permane identico a se' stesso, fenomenicamente percepiamo due o più oggetti diversi.
  • Vediamo le cose diverse da come sono: in tutte le illusioni ottiche la realtà viene percepita diversa da come è fisicamente.
Triangolo di Kanizsa

Il triangolo di Kanizsa: percettivamente si vede un triangolo bianco (che non esiste fisicamente) sovrapposto a tre dischi neri ed ad un secondo triangolo disegnato a tratto.

Figura impossibile

Figura "impossibile" di Penrose: possiamo vedere un oggetto che non potrebbe esistere nella realtá.

Triangolo di Galli-Zama

Il triangolo di Galli-Zama: percettivamente la base del triangolo (che continua ad esistere fisicamente) sparisce aggiungendo delle linee parallele.

Vaso di Boring

Vaso di Boring: anche se lo stimolo fisico non cambia, possiamo vedere un vaso bianco su sfondo nero, o due visi neri su sfondo biamco, ma non le due cose contemporaneamente.

In altri termini, non si può sempre spiegare come gli oggetti sono percepiti a partire dalla loro descrizione pura e semplice: la presenza di alcune caratteristiche fisiche nello stimolo non è sempre condizione necessaria e sufficiente affinché lo stimolo venga percepito in un certo modo: sono necessarie condizioni “altre”, che sono appunto l'oggetto del nostro studio.

Un modello dei sistemi percettivi

A questo punto dovrebbe essere chiaro che la realtà fenomenica è il risultato di un processo di mediazione che qui possiamo esemplificare nel caso, paradigmatico, della percezione visiva: l'oggetto fisico (fonte dello stimolo) emette e/o riflette delle radiazioni luminose (stimolo distale) le quali vanno a stimolare la retina dell'osservatore (stimolo prossimale), scatenando una serie di modificazioni fisiologiche che provocano una serie di segnali nervosi i quali, seguendo le vie afferenti del sistema nervoso, arrivano alle aree corticali ove (si suppone) avviene la percezione dell'oggetto (oggetto fenomenico).

Questo modello, a prima vista semplice e intuitivo, pone una serie di problemi estremamente complessi:

  1. Il problema dell'unità: a livello di stimolo prossimale l'unità degli oggetti è completamente perduta: non esiste nessuna informazione che leghi le onde elettromagnetiche che colpiscono la retina con l'oggetto che le ha emesse, nonostante ciò, a livello fenomenico gli oggetti riacquistano la loro identità.
  2. Il problema dell'identità o delle costanze percettive: nella realtà gli stimoli distali provenienti da un singolo oggetto variano continuamente: gli oggetti sono spesso in movimento (e quindi cambia la loro forma), passano attraverso condizioni di luminosità diverse (e quindi varia la luce che riflettono), nascondono o sono nascosti da altri oggetti, etc. Però, nonostante queste modificazioni nella stimolazione, gli oggetti conservano una loro identità e immutabilità a livello fenomenico.
  3. La percezione della tridimensionalità e del movimento: sono questi degli aspetti percettivi che non hanno una semplice corrispondenza negli stimoli prossimali: la tridimensionalità sparisce del tutto a livello della retina (che è piatta) mentre le traiettorie degli oggetti, una volta proiettate sulla retina, non conservano alcuna informazione che si possa mettere in corrispondenza biunivoca col movimento reale dell'oggetto.Mi pare che questi siano casi particolari del problema inverso che spunta spesso in psicologia della percezione: dato uno stimolo fisico è (relativamente) semplice ricostruire il corrispondente stimolo prossimale (es. da un oggetto la sua proiezioni retinica) ma, dato che il processo provoca la perdita di informazioni (es. la profondità), com'è possibile per il sistema percettivo ricostruire a livello fenomenico l'oggetto, ricreando in qualche modo l'informazione andata perduta?
  4. Le qualità terziarie, ossia la presenza di aspetti “affettivi” nelle nostre percezioni: perché un fiume è “placido” o un monte “imponente” perché esistono colori “caldi” e “freddi”, parole che suonano “aspre” e via di questo passo?
  5. Il ruolo dell'esperienza, e degli aspetti cognitivi in generale, nel formarsi del mondo fenomenico.

Teorie a confronto

Prima di iniziare ad analizzare i singoli quesiti sopra menzionati, è utile dare un breve cenno alle diverse impostazioni teoriche nell'affrontare questi problemi.

Storicamente si è avuta una contrapposizione fra nativisti, secondo cui le strutture psicologiche sono innate, ed empiristi, che sostengono il ruolo principale (se non esclusivo) dell'esperienza passata nella vita psichica.

Fondatore della corrente empirista in psicologia della percezione può essere considerato Hermann von Helmholtz (1821-1894), medico di formazione ma con salde basi di matematica, fisica e filosofia. Egli osserva come gli stimoli sulla retina siano per loro natura atomici: la luce eccita particolari zone della retina (i fotorecettori) e i segnali che si creano viaggiano lungo il nervo ottico secondo percorsi separati (cosa che egli sapeva dai suoi studi di fisiologia), quindi le impressioni che arrivano al cervello sono per loro natura aggregati informi di sensazioni elementari:

“Tutto quel che vede, il nostro occhio lo vede come un aggregato di aree colorate nel campo visivo” (BOZZI P., 1969, pag. 65)

Com'è possibile dunque che noi riusciamo a vedere oggetti dotati di una loro unità ed identità? Secondo Helmholtz, è il cervello che, tramite un processo deduttivo non dissimile da qualunque altro ragionamento inferenziale, ricostruisce la realtà a partire da questi stimoli elementari:

“Le attività psichiche che ci guidano ad inferire la presenza di un certo oggetto, dotato di determinate caratteristiche, in un certo luogo davanti a noi, sono paragonabili ad una conclusione fondata sull’osservazione di ciò che accade nei nostri sensi, la quale ci permette di formarci un’idea intorno alla possibile causa di ciò che abbiamo osservato” (BOZZI P., 1969, pag. 63)

L'unica differenza fra questo tipo di ragionamento e il normale ragionamento deduttivo è che qui si tratta di un procedimento inconscio.

Questa posizione, che potremmo definire di tipo atomista (oltre che empirista), verrá ripresa dai cognitivisti secondo i quali “ogni processo mentale è acquisizione, immagazzinamento ed elaborazione di informazioni” (VICARIO G.B., 2001, pag. 177), secondo questi il cervello, in modo per nulla dissimile da un elaboratore elettronico, elaborerebbe l'input proveniente dalla retina come “insieme di pixel” seguendo un dato algoritmo per ricostruire la realtà che gli sta di fronte.

Un approccio totalmente diverso è quello enunciato, nella sua forma più completa, dalla scuola della Gestalt che vede il suo fondatore in Max Wertheimer (1880-1943). Secondo questa impostazione, la percezione si organizzerebbe secondo principi organizzativi i quali non dipendono in nessun modo dai singoli oggetti, o da singole caratteristiche fisiche degli stessi, ma dai rapporti esistenti fra gli oggetti stessi. Esempio significativo può essere la percezione di una melodia: essa viene percepita come tale in quanto rapporto ben preciso fra note adiacenti (infatti la melodia viene percepita costante anche se suonata in una diversa tonalità), e pertanto può essere definita solo in termini di relazione fra le note che la compongono, non a partire dalle singole note. Tali principi organizzativi sono da ritenersi innati e precedenti ogni forma di esperienza, anzi semmai sono questi principi che rendono possibile l'esperienza del mondo esterno, la Gestalt si oppone quindi ad un qualsiasi approccio empirista e/o atomista.

Recentemente, a fianco del cognitivismo ed in polemica con quest'ultimo, ha preso posizione l'approccio “ecologico” di James Gibson (1904-1979). Secondo Gibson, l'organismo sarebbe in grado di percepire direttamente le informazioni di cui necessita per la sua sopravvivenza, come risultato di sistemi evolutesi per adattarsi al suo ambiente. Gibson ha estremizzato questa posizione anti-empirista al punto di negare completamente un ruolo del soggetto nella percezione.

Critiche all'empirismo

Si possono muovere alcune critiche ad una impostazione empirista allo studio della percezione sia di ordine logico/ filosofico che di ordine metodologico.

La prima obiezione logica è relativa al ruolo della prima esperienza: se il motivo per cui vedo un tavolo di fronte a me è che “so” cos'è un tavolo (dalle esperienze precedenti), come è stato possibile che io vedessi un tavolo la prima volta, quando ancora non sapevo nulla di tavoli?

Lasciando questo quesito alla filosofia, possiamo notare che alla base di qualunque inferenza (se con questo termine intendiamo una serie di deduzioni logiche) sta una attribuzione categoriale, ossia dobbiamo assegnare ad un oggetto fenomenico una classe (concettuale) di appartenenza: per poter inferire qualcosa riguardo ad un tavolo devo prima affermare che un dato oggetto fenomenico è un tavolo. Ora l'attribuzione categoriale può essere fatta se e solo se esiste l'oggetto di tale attribuzione: se dico che un certo oggetto è un tavolo significa che già ho definito un oggetto, prima di constatare che tale oggetto è un tavolo. Ora dovrebbe essere chiaro che in questo processo di definizione dell'oggetto non posso usare nessun tipo di inferenza, perché questa segue dall'attribuzione categoriale e non può precederla. Da un punto di vista logico la posizione empirista è quindi un gatto che si morde la coda: le inferenze inconsce di Helmholtz dovrebbero aggregare gli stimoli elementari “sapendo” che tali stimoli appartengono ad un tavolo, ma questo lo posso sapere solo “dopo” che il tavolo è stato costruito fenomenicamente (dopo che gli stimoli sono stati aggregati), non prima: l'oggetto fenomenico deve precedere le inferenze (inconsce o meno), e non può esserne il risultato. Analogo discorso può essere fatto relativamente all'esperienza: l'esperienza necessita di un oggetto da esperire che deve precedere l'esperienza stessa e non può esserne il risultato.

Kanizsa affronta questo punto parlando di un processo primario in cui “l'input sensoriale viene anzitutto trasformato nelle unità segregate le cui caratteristiche vengono poi analizzate dal processo secondario” (KANIZSA G., 1980, pag. 85) in cui la mente costruisce un mondo percettivo carico di significato per l'osservatore. Da questo punto di vista possiamo affermare che le leggi di Wertheimer (alla base del processo primario) sono le condizioni necessarie all'esperienza ed al ragionamento inferenziale (processo secondario), fornendo il sostrato necessario al loro svolgersi. Kanizsa sottolinea due tipi di errore che si possono fare:

  • Un primo errore teorico nell'etichettare il processo primario come “inconscio” nel senso di non conoscibile. Questo fa si che qualunque teoria relativa al processo primario diventi non falsificabile.
  • Un secondo errore metodologico che consiste nell'assimilare in modo arbitrario i due processi sostenendo che si tratta in entrambi i casi di “inferenze” (per dirla con Helmholtz) o di “processi computazionali analoghi” (per dirla con i cognitivisti).È assai più proficuo dal punto di vista della ricerca concentrarsi invece sulle diversità fra i due processi al fine di comprenderli al meglio.

Bibliografia

BOZZI P., 1969, Unità Identità Causalità, Cappelli Editore.

KANIZSA G., 1980, Grammatica del vedere, Il Mulino (Bologna).

LUCCIO R., 1999, in La perceziuone visiva (a cura di PURGHÉ F., STUCCHI N., OLIVIERO A.), UTET.

VICARIO G.B., 2001, Psicologia Generale - I fondamenti, Laterza.